Quando una gravidanza si interrompe senza spiegazioni, la placenta può diventare una “scatola nera” preziosa. La ricerca prova a dare nomi, cause e prospettive a quel silenzio.
La natimortalità intrauterina resta uno degli eventi più drammatici della gravidanza, soprattutto quando non emerge una causa chiara.
Questo progetto di ricerca dell’Università di Firenze si concentra proprio sui casi in cui il feto muore in utero senza malformazioni evidenti, con l’obiettivo di ricostruire i meccanismi alla base dell’evento e individuare strategie di prevenzione più efficaci.
Al centro dello studio c’è un gruppo di donne con storia di morte fetale in gravidanza, per le quali è disponibile il tessuto placentare. L’idea è semplice ma cruciale: la placenta è una sorta di “scatola nera” della gravidanza e può conservare tracce, morfologiche e molecolari, utili a spiegare cosa sia andato storto.
I ricercatori intendono mettere insieme dati clinici materni, caratteristiche delle gravidanze successive e analisi di laboratorio sui tessuti, per passare da una diagnosi generica di “evento inspiegato” a un quadro più preciso delle cause e dei fattori di rischio.
Un asse importante del progetto riguarda la trombofilia materna, cioè la tendenza del sangue a formare trombi. Questa condizione è già riconosciuta tra le possibili cause di morte fetale, ma la frequenza reale nei casi con eziologia apparentemente ignota è ancora poco definita. Lo studio mira a quantificare quante donne del campione presentino trombofilia e come questa si leghi ai casi di natimortalità.
Particolare attenzione è riservata alle gravidanze successive nelle donne con trombofilia non trattata al primo evento, poi sottoposte a terapia specifica. I ricercatori confronteranno la presenza di complicanze ostetriche, gli esiti perinatali e le caratteristiche della placenta prima e dopo l’inizio del trattamento, per verificare se una gestione mirata riduca realmente il rischio.
La placenta verrà studiata in dettaglio, con esami istologici e immunoistochimici, per documentare le lesioni vascolari e microtrombotiche tipiche delle forme trombofiliche. Questo confronto tra campioni pre-trattamento e post-trattamento aiuterà a capire quanto la correzione del difetto materno si traduca in un reale miglioramento del “territorio” placentare.
Oltre agli aspetti vascolari, il progetto esplora in profondità i meccanismi cellulari placentari. Nei tessuti provenienti da morti fetali intrauterine saranno analizzati fattori pro-apoptotici come Fas, FasL, bax e caspasi, insieme a marcatori legati ai processi di angiogenesi e crescita come VEGF e leptina.
Questi parametri verranno confrontati con quelli di placente di controllo della stessa età gestazionale, allo scopo di evidenziare differenze quantitative e, se presenti, qualitative. La combinazione di osservazione al microscopio, tecniche immunoistochimiche e biologia molecolare offrirà una lettura multilivello del danno placentare.
L’obiettivo finale è costruire un profilo integrato di rischio che unisca patologie materne, caratteristiche istologiche della placenta e marcatori molecolari. Un quadro di questo tipo potrebbe in futuro supportare la pratica clinica sia nella valutazione delle donne con precedente morte fetale, sia nella pianificazione di gravidanze successive con protocolli di sorveglianza e terapia più mirati.
In prospettiva, la sfida è trasformare la natimortalità da evento vissuto come fatalità a evento sempre più spiegabile, su cui intervenire precocemente grazie a diagnosi accurate e a una migliore comprensione del ruolo della placenta e dei fattori materni.
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