Nei Balcani del 1943 migliaia di soldati italiani scelsero tra resa, fuga e resistenza. Una storia sospesa tra crollo, coraggio e memoria – Università degli Studi de L’Aquila
L’8 settembre 1943 segnò una svolta drammatica per le forze italiane dislocate in Jugoslavia, Grecia e Albania. Oltre 35 divisioni, circa 600.000 uomini, si trovarono improvvisamente senza direttive chiare dopo l’annuncio dell’armistizio con gli Alleati. La maggioranza si arrese ai tedeschi, venendo internata in campi locali o trasferita in Germania e Polonia.
Meno note sono invece le storie delle unità che rifiutarono la resa, tentarono di opporsi o scelsero di unirsi ai partigiani locali. Ancora più dimenticata è la vicenda di quei reparti che, in misura minoritaria, decisero di continuare a combattere al fianco della Wehrmacht. Il progetto mira a ricostruire in modo sistematico queste scelte, analizzando rapporti con la popolazione, scontri armati, fughe e repressioni.
La fase finale della ricerca si concentra sul difficile rimpatrio e sul reinserimento nella vita civile, un tema spesso trascurato nella ricostruzione della guerra italiana. L’esito previsto è la realizzazione di un volume firmato da Elena Aga Rossi e Maria Teresa Giusti.
Lo studio intende colmare una lacuna profonda nella storiografia italiana. La partecipazione dei militari nei Balcani dopo l’armistizio è stata per decenni relegata a un ruolo marginale, oscurata dalla lettura ideologica della guerra e dal primato delle interpretazioni antifasciste.
Questa ricerca prende avvio dal contesto dell’occupazione italiana nei territori balcanici, in cui non mancarono violenze e dure repressioni contro la popolazione e i movimenti di resistenza. Il crollo dell’8 settembre fece esplodere situazioni diversissime: divisioni che consegnarono le armi sperando nel rimpatrio, reparti che reagirono militarmente, unità che si unirono ai partigiani o si dispersero fra i civili per sfuggire ai rastrellamenti tedeschi.
Il progetto seguirà queste esperienze fino al termine della guerra, affrontando anche la prigionia nei campi tedeschi e la sorte degli Internati Militari Italiani (IMI). Una particolare attenzione sarà riservata alle divisioni che parteciparono alla resistenza locale, come quelle confluite nella celebre formazione Garibaldi in Montenegro.
L’obiettivo generale è restituire complessità a un periodo che la memoria pubblica ha semplificato, riportando alla luce il ruolo dei militari come protagonisti — e non solo vittime — del caos seguito all’armistizio.
Per molto tempo la storia italiana della Seconda guerra mondiale è stata raccontata attraverso una narrazione selettiva, che privilegiava il percorso dal dissenso antifascista alla resistenza, lasciando ai margini il ruolo dell’esercito. Gli avvenimenti successivi all’8 settembre furono interpretati come il semplice epilogo della guerra fascista, generando un vasto vuoto storiografico.
I militari che reagirono ai tedeschi, sia in Italia sia nei Balcani, furono a lungo ignorati o letti in chiave ideologica. L’assenza di un’analisi complessiva ha reso difficoltoso stabilire cifre certe su dispersi, morti, reparti collaborazionisti o soldati internati. Fondamentali, in questo senso, sono state le fonti tedesche, che hanno ridefinito la portata dell’internamento (circa 800.000 militari catturati, secondo Schreiber).
Solo dagli anni Novanta, con una nuova stagione di ricerche e memorialistica, si è iniziato a indagare con maggiore rigore la condizione degli Internati Militari Italiani e il ruolo dei reparti che scelsero la resistenza armata nei Balcani. Tuttavia, anche oggi permangono ampie zone d’ombra, aggravate dalla dispersione delle fonti familiari e dalla scarsa attenzione riservata dagli archivi pubblici.
Il progetto dell’Università de L’Aquila mira a colmare questo vuoto, offrendo un quadro strutturato delle vicende militari italiane nei Balcani tra il 1943 e il 1945 e contribuendo a una ricostruzione più equilibrata della memoria nazionale.
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