Vincenzo D’Amico, l’ultima intervista: il testamento storico

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By Paolo Colantoni

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I ricordi della sua avventura alla Lazio raccontati in una recente intervista: ecco chi era Vincenzo D’Amico e cosa ha rappresentato per i tifosi della Lazio

Come descrivere Vincenzo D’Amico a chi non lo ha mai visto o frequentato? Come uno dei giocatori più forti della storia della Lazio? Come un diciottenne capace di vincere uno scudetto da titolare riuscendo a farsi rispettare in un gruppo di matti?  Come il giocatore in grado di caricarsi la Lazio sulle spalle nel periodo più difficile della sua storia? Come il capitano coraggioso alla guida di un gruppo di ragazzini capaci di onorare la maglia della Lazio fino ad una salvezza, raggiunta sul campo, che sembrava impossibile? Come uno dei talenti più puri del calcio italiano? O più semplicemente come una delle bandiere, forse la più bella e mai ammainata della storia biancoceleste? Scegliete voi la definizione più adatta tra queste. Per quanto mi riguarda sono tutte assolutamente accostabili al grande Vincenzo D’Amico.

Vincenzo D’Amico, morto a 68 anni – Ricercaitaliana.it –

Quel pizzico di follia che contraddistingueva le sue giocate in campo gli è rimasto addosso per sempre. Con Vincenzo sapevi che tutto poteva succedere. La prima volta che lo contattai fu per un’intervista. Avrei dovuto chiedergli un parere, da commentatore Rai, sulla considerazione di cui godeva la Lazio nelle televisioni. “Ora non posso, sono con il mio avvocato – mi disse – ma se mi chiami tra mezz’ora sono tutto tuo”. Era la prima volta che parlai con lui e non conoscevo affatto alcune parti del suo carattere, diventate poi famose.  Quando incrociai il mio caporedattore, che mi chiese se avessi già fatto l’intervista, gli dissi tranquillamente la risposta che mi aveva dato Vincenzo e lui, altrettanto tranquillamente, mi consigliò di trovare subito un’alternativa. Per tutto il resto della serata, naturalmente, il suo cellulare squillò a vuoto.

Almeno con me la scusa dell’avvocato provò a ripeterla un’altra dozzina di volte. Ma è nelle cene o negli eventi organizzati che riusciva a dare il meglio di se. Una volta, per una cena con i tifosi, riuscì a superarsi. Tutti attendevano il suo arrivo. Quando lo chiamai, preoccupato per la sua assenza, mi rispose. “Sono al parcheggio. Un minuto e sono da voi”. Naturalmente non arrivò mai. Vincenzo era anche capace di sorprese inaspettate. Una volta piombò in televisione nel bel mezzo di una puntata senza che nessuno lo avesse invitato. Molte volte, quando lo chiamavamo per realizzare un collegamento telefonico, ci diceva che era impossibilitato a realizzarlo, per poi giungere all’improvviso in radio.

Ma Vincenzo non è  stato solo un personaggio fuori le righe. Oltre ad essere stato un grande esperto ed intenditore di calcio è stato soprattutto un grande laziale. Una volta, durante una diretta radiofonica, mentre un tifoso gli rinfacciava di non essere troppo carino nei commenti sulla squadra biancoceleste, rispose che lui la Lazio ce l’aveva tatuata addosso e mentre lo diceva alzò la maglia che indossava e mi fece vedere una splendida aquila tatuata sul suo corpo. Il lunedì mi capitava spesso di andarlo a trovare a casa sua. La scusa era realizzare un’intervista di commento sul campionato. In realtà mi piaceva passare un pò di tempo con uno dei giocatori più forti che abbiano mai vestito la maglia della Lazio. Una volta, a fine intervista mi fece vedere tutti i cimeli più belli collezionati in tanti anni di carriera: era impossibile non notare la commozione nel ricordare i momenti più belli vissuti con la maglia della Lazio. La squadra che ha segnato la sua vita e che gli è rimasta nel cuore. Quel giorno realizzai questa intervista, che forse, più di ogni altro ricordo, rappresenta una sorta di testamento biancoceleste.

Vincenzo D’Amico con lo scudetto vinto nel 1974 – Ricercaitaliana.it

Vincenzo D’Amico, cosa ha rappresentato e cosa rappresenta per lei la Lazio?
“La Lazio è stata gran parte della mia vita. La società che mi ha fatto crescere, che mi ha permesso di diventare prima uomo e poi calciatore. La squadra che mi ha fatto vincere uno scudetto e verso la quale ho dato tutto. Io faccio sempre una battuta e dico che Bob Lovati rappresenta il 51 per cento della storia della Lazio…e io il 49”.

Spesso nelle battute si nascondono delle grandi verità…
“Anche se si tratta di una battuta, io la ripeto sempre con orgoglio, perchè so che per questi colori ho dato tanto. Ci sono giocatori che hanno guadagnato l’amore dei tifosi andando sotto la curva o facendo dichiarazioni d’amore. Io attraverso quello che ho fatto in campo. Ho giocato quando non avrei dovuto, mi sono sacrificato anche quando i medici mi consigliavano di fermarmi e ci ho messo sempre la faccia”.

Andiamo con ordine. Qual’è il primo ricordo di Vincenzo D’Amico dello scudetto del 1974?
“Pensando alle partite di quella stagione non posso non parlare del derby di ritorno, nel quale segnai un gol. E’ una gara alla quale sono particolarmente legato per tanti e tanti motivi. All’andata erano successe delle cose brutte che mi avevano fatto male. Ebbi un problema fisico e fui costretto ad uscire alla fine del primo tempo, ed alcuni ci ricamarono su. Aspettavo proprio il ritorno per potermi rifare. Il primo tempo finì con la Roma in vantaggio di un gol. Una rete che solo l’arbitro ha visto, perchè il tiro di Spadoni non aveva superato la linea di porta. L’arbitro diede comunque la rete e noi fummo costretti a rimontare. Nella ripresa in una delle prime azioni segnai il gol del pareggio. Il primo in un derby e il secondo in serie A. Indimenticabile”.

Rimanendo in tema derby, Vincenzo D’Amico ne ha giocati tantissimi e in molti periodi particolari. Con la Lazio favorita, con una Roma decisamente più forte, derby valevoli per lo scudetto e per la salvezza. Ce n’è uno, oltre a quello dello scudetto a cui è particolarmente legato?
“Credo che non ci siano dubbi. Il derby finito 2-2 del 1985 e nel quale segnai due gol. Noi eravamo una squadra in grande difficoltà e già praticamente retrocessa. Loro erano la Roma più forte di sempre. Avevano vinto lo scudetto, e stavano per giocare la finale di Coppa dei Campioni. Era la Roma di Falcao, Pruzzo, Bruno Conti, Di Bartolomei, Cerezo. Noi eravamo battuti in partenza. Eppure ce la mettemmo tutta e io segnai due gol. Credo che rimarranno nella mente di tutti. Anche perchè non credo che altri siano stati capaci di segnare delle doppiette nei derby. Non c’è riuscito Chinaglia, non c’è riuscito Giordano e neanche Signori”.

Che cos’è il derby e come si vive nella capitale?
“Se vuoi ti rispondo che è una gara come tutte le altre, che vale solo tre punti, ma la verità è un’altra. Il derby è un match particolare, una gara che fa parte di un campionato a se. A Roma  vale più vincere un derby che uno scudetto. Guai a perderlo. Uscire sconfitti equivale a tradire i tifosi, a tradire la maglia. Non si può perdere un derby e pensare che la sconfitta possa essere digerita dai tifosi”.

Ritorniamo al famoso spogliatoio del 1974…
“Ti blocco subito perchè io sono l’unico a cui non puoi chiedere niente, perchè non facevo parte di nessun clan. Ero talmente piccolo e contavo talmente poco che non decidevo nulla. Ero un po’ la mascotte della squadra. Io stavo in mezzo tra i due spogliatoi, non ero schierato con nessuno, anche perchè pensavano che era giusto tenermi fuori da qualunque discussione”.

Essere la mascotte cosa vuol dire?
“Che i miei compagni mi volevano bene. Ti racconto un episodio che risale all’anno in cui feci il mio esordio in serie A. Eravamo a Genova e affrontammo i grifoni. C’era un difensore del Genoa, Maggioni, che mi marcava e iniziò a minacciarmi: se ti muovi ti spezzo una gamba, prova a superarmi e vedrai…io ero un po’ in soggezione. Erano le prime volte che mi trovavo a gestire situazioni simili. Arrivò di corsa Luciano Re Cecconi che si mise in mezzo e sfidò l’avversario dicendogli: prenditela con me se hai le palle. Facile minacciare lui che è giovane”.

Chi era Luciano Re Cecconi?
“Tante volte, anche con un pizzico di retorica, si dice che sono sempre i migliori quelli che se ne vanno. Ma in questo caso è vero. Molte volte, soprattutto in Italia, basta morire per essere ricordato come un grande. Lui era davvero un grandissimo. Pino Wilson lo ha definito un ragazzo trasparente. Io aggiungo che era un buono, uno di quelli che era sempre pronto a dare una mano a tutti, anche a chi non se lo meritava. E non sto parlando del giocatore, ma dell’uomo. Per quello che riguarda il campo era un generoso, metteva sempre tutto quello che aveva e si impegnava per tre”.

Vincenzo D’Amico che rapporto aveva con lui?
“Specialmente nell’ultimo periodo eravamo diventati molto amici. Ci siamo infortunati insieme e abbiamo passato diverso tempo in infermeria. Ma al di là di questo, avevamo legato molto, noi e le nostre mogli. Io l’ho sempre considerato un saggio, uno di quelli pronto a darti il consiglio giusto e a farsi in quattro per te”.

Vincenzo D’Amico nella veste di commentatore sportivo in Rai – Ricercaitaliana.it

Ricorda il modo in cui apprese la notizia della sua morte?
“Benissimo. Ero in albergo ad Udine durante un ritiro della nazionale Under 23. Il giorno dopo avremmo giocato contro l’Irlanda e ci trovavamo tutti a tavola per la cena. Ad un certo punto Gigi Danova, un giocatore del Cesena, mi fece segno che in televisione stavano mandando continuamente le immagini di Re Cecconi. Io pensai che fosse un servizio per il suo prossimo rientro in squadra. Ci avvicinammo alla tv e sentimmo invece Emilio Fede che dava la notizia della sua morte. In quel momento mi crollò il mondo addosso e corsi in camera per sfogarmi. Dopo poco mi raggiunsero anche Pecci e Claudio Sala”.

Re Cecconi fu uno degli eroi della Lazio scudetto. Una squadra diventata leggenda, anche grazie a tanti aneddoti. Ce n’è qualcuno, magari inedito, che le è rimasto nel cuore?
“Singoli episodi no, perchè sono stati quasi tutti raccontati. Ma nel mio cuore ci sono molte storie legate al presidente Lenzini. Ricordo quando entrava negli spogliatoi prima delle partite, il giro di campo che anticipava l’inizio della gara, i rigori che batteva a Pulici nella porta dello spogliatoio e che doveva segnare per forza. Un personaggio straordinario che ha dato tanto, forse anche troppo alla Lazio. Visto che ci ha rimesso di tasca sua”.

Lo ha definito straordinario, lo era anche quando discuteva con lui stipendi, ingaggi e premi partita?
“Guarda, io sono stato uno dei pochi, nella storia della Lazio di quegli anni, che non andava da lui per parlare di stipendi. La prassi era questa: si discuteva con i dirigenti di allora, da Sbardella a Parruccini, si faceva finta di trovare un accordo sull’ingaggio, poi in gran segreto si andava da Lenzini e con un piccolo pianto, magari facendogli capire che le cifre concordate erano troppo basse, si riusciva a sganciargli qualche soldo in più. Lo facevano quasi tutti, ma io non l’ho mai fatto. Non ho mai discusso di soldi, forse sono stato sempre troppo ingenuo, ma mi accontentavo di quello che mi offrivano. Sai quanti soldi ho buttato così…”.

Eppure Lenzini è stato sempre considerato come un presidente parsimonioso, che difficilmente si faceva fregare…
“Negli affari era un duro, ma di carattere era buonissimo. Per noi era un padre, soprattutto per me che ero il più piccolo. Io ero una mascotte per tutti, anche per lui, ma non ero il suo pupillo, ne aveva altri. Al di là del carattere mi fa piacere ricordarlo perchè quando si parla della squadra dello scudetto, di solito si dice: era la Lazio di Maestrelli, o la Lazio di Chinaglia, di Wilson, Re Cecconi, D’Amico. Difficilmente si pensa alla Lazio di Lenzini. In realtà è stato un grandissimo presidente. Uno che con due lire ha vinto uno scudetto. Uno che si è indebitato per la Lazio, mentre altri presidenti hanno fatto affari. Lui aveva due lire, ma erano sue e le ha messe tutte per la società. Ed è riuscito a vincere uno scudetto. Un grande”.

Tommaso Maestrelli?
“Solo uno come lui poteva riuscire ad ottenere quello che ha ottenuto con quel gruppo di matti. Con un sorriso riusciva a risolvere tutti i problemi, che in altre squadre sarebbero stati impossibili da affrontare. Ci ascoltava, ci faceva sfogare e spesso chiudeva un occhio. Per me è stato fondamentale. Sia nella crescita calcistica che in quella personale. Se non fosse morto, probabilmente avrei avuto un destino diverso, soprattutto in nazionale”.

Una sola esperienza in azzurro e ai tempi del Torino. Molti pensano che se D’Amico fosse rimasto alla Lazio non sarebbe mai stato convocato.
“E’ un po’ forzata come affermazione. E’ vero che venni chiamato da Bearzot nella mia unica stagione al Torino, ma è anche vero che quella convocazione fu frutto di tutto il mio lavoro alla Lazio. Purtroppo il feeling con il commissario tecnico durò poco. Ci furono delle incomprensioni che portarono alla mia esclusione”.

Perchè lasciò la Lazio, anche se per un solo anno?
“Perchè Lenzini dovette cedermi, visto che la società era in crisi. Lui fu costretto a vendermi ed io ad accettare. Quando andai a Torino non venni accolto bene: il presidente del club Fedelissimi granata, il gruppo di riferimento dei tifosi del toro, dichiarò in un’intervista a Tuttosport che ero stato un acquisto sbagliato. Secondo lui non avevo le caratteristiche per giocare con la maglia granata. La mia più grande soddisfazione è stata vederlo arrivare a casa mia, al termine di quel campionato e quando si sparse la voce di un mio ritorno alla Lazio, per pregarmi di rimanere, portandomi un trofeo. Ma ormai avevo deciso di tornare alla Lazio. Anzi, fui io, in prima persona a fare la trattativa con il presidente del Toro, facendo risparmiare a Lenzini anche tanti soldi”.

Una foto ritrae D’Amico, circondato da due avversari, andare in gol con un colpo balistico straordinario. Un pallonetto a foglia morta sull’uscita del portiere.
“Questa è la dimostrazione che già quando giocavo io si facevano i cucchiai. Non li ha inventati Totti (ride ndr). A parte gli scherzi, sono molto legato a questa foto perchè la gara era Lazio-Bologna 3-0 del 1976. La gara nella quale ci infortunammo io e Re Cecconi. Battisodo e Paris, due giocatori del Bologna provarono a fermarmi ma non ci riuscirono. Questa fu l’ultima azione della partita. Io feci gol e l’arbitro fischiò la fine. Purtroppo, per tirare, sentii una fitta al ginocchio e capii subito di essermi strappato. Il medico Ziaco venne verso di me, toccò il ginocchio e mi disse: ma tu sei pazzo, come hai fatto a giocare fino ad oggi? Questa è la risposta a chi crede che nella mia carriera mi sono risparmiato”.

Un gol di Vincenzo D’Amico su punizione – Ricercaitaliana.it

Per uno come lei, capace di laurearsi campione d’Italia, che valore poteva avere una promozione in serie A nel 1983?
“Un valore grandissimo. Intanto abbiamo ottenuto un risultato che ha fatto felici i tifosi in un anno difficile, visto che la Roma vinse lo scudetto. E poi ci permise di prenderci una bella rivincita contro tutti gli scettici. E ti assicuro che molti tifosi della Lazio erano convinti che non saremmo mai riusciti a raggiungere la promozione. Avevamo una buona squadra, con Giordano e Manfredonia su tutti, ma arrivammo a fine stagione senza energie. Fortunatamente all’ultima giornata affrontammo a Cava dei Tirreni una Cavese che non aveva nulla da chiedere al campionato e portammo a casa un pareggio sofferto. Non so come sarebbe andata se i nostri avversari fossero stati con l’acqua alla gola e costretti a giocarsi la partita con il coltello tra i denti, perchè eravamo veramente scoppiati”.

L’anno successivo in A, con Giordano fuori per infortunio, quante volte D’Amico si è caricata la Lazio sulle spalle?
“Ricordo solo che andai a battere almeno cinque o sei rigori pesantissimi. Erano situazioni terribili. Non puoi neanche immaginare quanto scottasse quel pallone. Non ci fu un solo rigore non decisivo. Tutti calciati o sullo 0-0, quindi per sbloccare il risultato, o sull’1-0 per loro, il classico rigore decisivo che ti permette di portare a casa il punto, o sul risultato di parità. Ripeto: tutti rigori decisivi. E tutte le volte che andavo a battere, ricordo che prendevo la palla, la sbattevo a terra per allentare la tensione, iniziavo a respirare a fatica. Io ero solito piazzare il tiro dal dischetto. Quei rigori invece li ho tirati sempre forti, spesso centrali e senza guardare, Perchè avevo davvero paura”.

La chiusura non può essere che dedicata alla foto che ritrae Vincenzo D’Amico in primo piano con la maglia scudettata.
“Bella la maglia, bello lo scudetto, ma soprattutto… vi rendete conto quanto ero bello io? A parte gli scherzi, il mio augurio più grande è di rivedere presto un nuovo poster con la Lazio di oggi con lo scudetto sul petto. Da ex giocatore, ma soprattutto da tifoso è l’augurio che faccio ai giocatori e ai tifosi”.

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